Fabbri d'acciaio, un lancio tra i titani

11 Febbraio 2020

Con il 21,59 del record italiano indoor di Stoccolma, il pesista fiorentino inizia ad avvicinarsi ai big mondiali nella specialità che sta evolvendo più rapidamente

di Giorgio Cimbrico

Il neo primatista italiano indoor Leonardo Fabbri, per tutti Fabbrino, ha iniziato la sua salita in scena scegliendo uno dei periodi più avvincenti e difficili nella storia delle 16 libbre da spedire lontano: le sfide non gli fanno paura, così come non attizzavano timore nel mentore Paolone Dal Soglio che nessuno ha mai chiamato Paolino.

Paolo, veneto di Schio (che, sarà un caso, vinse gli Europei indoor proprio a Stoccolma) è una specie di intruso in una galleria dove si parla una sola lingua, il fiorentino. In una specie di bisticcio artistico, Leonardo è molto… michelangiolesco, nel senso che per altezza e peso può esser avvicinato al capolavoro esposto all’Accademia: il David è più alto e più pesante ma anche Fabbrino non scherza. E non essendo di marmo è anche assai più dinamico del gigante che Buonarroti ricavò da quel che chiamava un “pezzo di carne”.

Ispido periodo storico: sufficiente dare un’occhiata a come è andata l’anno scorso per capire quale è la situazione, il livello e soprattutto lo scenario che condurrà a Tokyo: otto mastodonti sopra i 22 metri, quattro sopra i 22 e mezzo, il 12° a 21,63.

È il riassunto finale di una stagione che ha offerto la più grande gara della storia, per emozioni, rivolgimenti, misure. Ricapitolando: Tom Walsh, ex-muratore di Timaru, Nuova Zelanda, spara subito a 22,90 e, come si dice in gergo, ammazza la gara che non spira del tutto. All’ultimo lancio, Joe Kovacs che non è un uomo ma una specie di mortaio, proietta la palla a 22,91 (pareggiando Alessandro Andrei dell’annata 1987, quello del triplice record mondiale viareggino) e dando dimostrazione che certi suoi lanci, in filmati diventati cult avevano basi solide, reali.

Non finisce così: Ryan Crouser, campione olimpico in carica, discendente di una stirpe di lanciatori, fa atterrare a 22,90 e, per la seconda miglior misura, toglie al kiwi le piume d’argento. Tre in un centimetro, alle soglie dei 23 metri. Mai vista una cosa simile. Forse solo immaginata nelle zone più periferiche del cervello.

Il peso sta diventando una faccenda globale. La Nuova Zelanda aveva espresso quella gran donnona di Valerie Adams, ma uomini no. Di solito quelli come Tom finivano in prima linea, piloni. E neppure il Brasile aveva mai espresso lanciatori di valore assoluto: ora c’è Darlan Romani cha quanto a struttura non è un capolavoro di Fidia o di Prassitele, ma 22,61 è merce molto pesante. C’è persino un lussemburghese, Bob Bertemes, capace di 22,22, ma poco affidabile nei grandi eventi, la prova del fuoco.

La normalità storica viene dagli americani che hanno dominato la specialità ingaggiando furibondi duelli sinché è rimasta in vita la Ddr, e dai polacchi che quanto a tradizione, risultati e profondità non scherzano: Michal Haratyk è un regolarista, Konrad Bukowiecki ha un grafico oscillante ma sa essere pericoloso. Per completare, il ceco Tomas Stanek e il croato Filip Mihaljevic andato subito lunghissimo.

Fabbrino ha deciso di dar la svolta secca, definitiva, in questo sovrabbondante periodo storico, nel segno hegeliano del “bello è l’arduo”. Esser stato respinto per pochi centimetri (e un record: mai nessuno era uscito dai dodici della finale mondiale con 20,75), gli ha dato la spinta giusta. Sufficienti pochi mesi di lavoro per scalare di almeno un livello, portarsi al quarto posto mondiale della lista di stagione, pensare a Tokyo per trovare un posto tra i titani, puntare su Parigi per dar vita a un gran duello d’artiglieria.

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